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LA CARICA DEGLI ANALFABETI FUNZIONALI

7 Aprile 2025

LA CARICA DEGLI ANALFABETI FUNZIONALI

7 Aprile 2025

Che cosa sappiamo fare quando lo dobbiamo fare? Meno di quanto pensiamo, affermano le statistiche. Preoccupanti, diciamo la verità. La Commissione Ue rileva che un adulto europeo su cinque fa fatica a misurarsi con la lettura e la scrittura. Che un quindicenne su quattro non viene a patti facili con un libro o un problema di matematica elementare. Che quattro piccole e medie imprese su cinque non riescono a trovare il talento di cui hanno bisogno. 

La soluzione proposta da Bruxelles è l’Unione delle competenze – Union of the Skills – con progetti pilota che facilitino l’apprendimento e sollecitino gli stati membri a trovare criteri comuni per facilitare la crescita dei lavoratori e la loro libera circolazione. Progetto visionario, senza dubbio, di cui si fatica a vedere il ritorno concreto. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare.

L’Italia ne ha maledettamente bisogno. Siamo per definizione un popolo di eroi, santi, scienziati e navigatori. Ma i numeri rilevano anche una nazione abitata da troppi incolti, in cui un adulto su tre non sa sommare due frazioni elementari, e quasi la metà inciampa nel risolvere un problema banale come trovare in fretta su una mappa la via migliore da casa all’ufficio, passando per la scuola a lasciare i figli. 

La sentenza è firmata dall’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. L’ha scritta in dicembre nel suo rapporto Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) sulle “competenze degli adulti” che arriva ogni decennio.

I tecnici dell’istituzione parigina hanno studiato i profili di milioni di cittadini, valutandone la capacità di comprendere un testo base e quella di far di conto, sino a dire che Finlandia, Giappone, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia sono i Paesi più intellettualmente dinamici della Terra benestante, mentre l’Italia – nonostante gli evidenti picchi di talento – si segnala per “una performance costantemente inferiore alla media”. 

Nel documento si scopre che uno su tre dei nostri rasenta l’analfabetismo funzionale, fatica a collocarsi nel mondo che lo circonda e nella sua storia. Del resto, lo scorso novembre, è stato il Censis a gelarci, rivelando che circa il 35% degli italiani crede che l’Inno di Mameli sia frutto dell’indiscutibile genio di Giuseppe Verdi. Uno su tre, di nuovo. È un malocchio.

Questa parata degli orrori ci racconta che fra i 31 paesi più industrializzati del globo, l’Italia chiude la classifica delle competenze, circostanza che condanna la gestione del sistema scolastico nazionale e la capacità di formare persone in grado di ragionare e reagire compiutamente alle novità. Se non bastasse, negli ultimi dieci anni la tendenza è peggiorata.

La valutazione dell’Ocse è basata sulla definizione di sei livelli competenza. Il più basso è “meno di uno”, il più alto è il “cinque”. L’indice di alfabetizzazione sentenzia che il 10% degli italiani sa “al massimo comprendere frasi brevi e semplici”; mentre il 25% è in grado di capire “testi brevi quando le informazioni sono chiaramente indicate”. 

Al contrario, solo il 30% della popolazione è in grado di “valutare testi lunghi e densi su più pagine, e di sfruttare le conoscenze pregresse per comprendere scritti e completare compiti”. È l’“uno su tre” (quasi) composto dai migliori che si incontrano ai livelli 4 e 5, i cervelli avanzati su cui l’Italia costruisce il ruolo di Grande Paese, e va bene sino a quando si è costretti ad osservare che, nella media Ocse, i primi della classe sono il 43% degli adulti.

Quando si arriva all’aritmetica, le percentuali sono analoghe e così il divario. La catastrofe esplode con la “soluzione dei problemi da cui dipende l’adattamento”. Qui si trova che un misero 15% di concittadini ha i mezzi per “una comprensione più profonda dei problemi e per reagire a cambiamenti imprevisti, anche se richiedono una rivalutazione importante del problema” (media Ocse: 32%). E che il 46%, in sostanza metà degli adulti della Penisola, sa risolvere soltanto “problemi semplici con poche variabili che non cambiano man mano che avanzano verso la soluzione” (media Ocse: 30%). È sconfortante. Come lo è constatare che il 15% dei lavoratori svolge una mansione inferiore alla propria qualità personale e professionale, mentre il 18% ne ha una per la quale non è abbastanza qualificato: il lavoro, in sostanza, li depreda. Servirebbe un piano pluriennale in materia, ben finanziato, disegnato coinvolgendo non solo gli esperti, pedagogisti, sociologi, giornalisti, ma anche la società civile. I numeri dicono che non ci sarebbe scelta, visto che l’Italia spende appena il 4% del Pil per l’istruzione.  È meno di quanto paga per gli interessi sul debito. Meno della Danimarca, per dirne una, che nelle graduatorie Ocse naviga tranquilla ai piani alti e ci guarda da lassù.

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